lunedì 8 settembre 2014

L'altra Africa

Una settimana, tre università, due paesi.
Comincia tutto la scorsa domenica con un arrivo tormentato a Nairobi dove una macchina sarebbe dovuta arrivare a prendermi ed invece..il deserto. 
Mille persone cercano di approcciarsi a me per offrirmi un passaggio, inizialmente non mi fido e faccio male, visto che all'ennesima offerta di aiuto un signore gentilissimo mi mostra non solo la sua auto, ma anche la ricevuta che mi avrebbe fatto nonché il tragitto che avremmo percorso; la sua faccia rassicurante mi invoglia ad accettare l'offerta. 40 minuti dopo sono nel mio splendido hotel in pieno centro a Nairobi. 
Nel tragitto non scollo gli occhi nemmeno per un secondo dal finestrino e vedo macchine ovunque, traffico inverosimile alle 7 di mattina, pubblicità di acconciature africane meravigliose, uccelli appollaiati sugli alberi di dimensioni giganti: riflettendoci credo che quelli siano la loro versione dei piccioni urbani, solo che assomigliano più a Cicogne da 50 kg!


Vedo molta gente a piedi, che sicuramente percorre distanze lunghissime, tanto caos, parecchio smog, motociclette ovunque e tantissimi carri/carretti/bus che trasportano qualunque cosa.
L'autista mi spiega che il traffico è la costante di Nairobi, che non esistono mezzi pubblici adeguati e che ovviamente nelle ore di punta (20 ore su 24) ci si aspetta di restare imbottigliati almeno un’oretta, qualunque sia il tragitto da percorrere.
Battezzata con il traffico, arrivo nella super lussuosa stanza dell'hotel, dove tutto è invece tranquillo, pulito, con alberi e piante tropicali che si affacciano sulla piscina e solo in lontananza palazzoni che mi ricordano dove sono.
Iniziano le mie giornate di lavoro intenso, corriamo all'università ad incontrare i Professori locali con i quali organizzeremo i corsi per gli studenti. L'ateneo è un agglomerato di edifici più o meno dissestati con spazi per i dormitori e palazzoni per le lezioni. Annesso c'è l'ospedale universitario, uno dei più grandi del Kenya, mi spiegano.
Ci accompagnano dal Rettore, un omone panciuto e fiero che ci ribadisce l'importanza del nostro arrivo e ci liquida con qualche convenevole... esattamente come accadrebbe da noi in Italia. 
Vedo tante ragazze incinte, moltissimo personale amministrativo, dottori, studenti, tutti che camminano qui e là con una discreta fretta e, dimenticando per un attimo le mura dissestate e il colorito dei passanti, non sembra di essere troppo lontano dall'Europa.
Son tutti professionali ed organizzati, quindi, inizialmente preoccupata per l’esito delle conferenze, mi tranquillizzo e capisco che le giornate successive sarebbero andate bene.
Così arrivano in fretta i giorni affannati delle conferenze, trotto come una pazza a gestire prima 300 studenti di medicina, poi 150 di farmacia. Tutto va a gonfie vele e durante le pause ho tempo di chiacchierare/intervistare i ragazzi ed i dottori.


Riesco così a capire un po' di più sulla loro situazione. Mi raccontano che l'università funziona molto bene, che sono orgogliosi di averci lì, assalgono il Prof. di Oxford che mi accompagna per chiedergli come possono fare ad andar via e trovare assegni di ricerca in UK... esattamente come facciamo noi!
La differenza è che qui quei pochi che riescono a studiare, con l'aiuto del governo o con le famiglie che finanziano, hanno pochissime aspettative. In Ospedale guadagnano 800 dollari al mese, sempre se riescono ad essere assunti, e sono costretti a far 2/3 lavori in altre cliniche o università. Il risultato è che un dottore di media bravura lavora dalle 7 di mattina a mezzanotte per garantire uno stipendio modesto.
Loro sono però i "fortunati" quelli che fanno una vita quanto più simile alla nostra e mi stupiscono in positivo con questi racconti. Poi però mi spiegano anche che "i non fortunati" guadagnano dai 10 ai 15 dollari al giorno, che non possono permettersi farmaci e che si muore di HIV e malaria solo perché non possono pagarsi le cure.

Quindi quest'Africa, quella dei futuri professionisti, è ben cosciente che il loro mondo dorato è lontanissimo dalla realtà della maggioranza dei connazionali.
E poco dopo mi arriva una richiesta che mi apre il cuore e la mente, che capovolge il mio punto di vista. Il rappresentante degli studenti dell'ultimo anno di medicina, mi ringrazia per la bella esperienza e coglie il mio sorriso per farmi una richiesta diretta: hanno bisogno di stetoscopi.
Mi spiega che entrando in specialistica avranno bisogno di sentire il battito cardiaco dei pazienti ma qui gli stetoscopi costano tantissimo e loro non potranno permetterseli per i prossimi 5 anni se qualcuno non li aiuta.
Quindi mi dice: "siamo 250, ci laureiamo tra un mese, ci aiuti a trovarli? Potremmo donarli alla classe e cominciare la specializzazione come si deve..."
Sorrido ancora e un po' mi commuovo, sono sinceri e determinati nel trovare i fondi per questo regalo alla loro classe. Identificano in noi europei un possibile aiuto e ci dicono: “Qui ci son bambini che ancora non mangiano nelle campagne ma anche dottori in città che visitano senza strumenti”.
Mi faccio carico della loro causa e comincio a muovermi per accontentarli: hanno bisogno di un aiuto concreto e io mi impegnerò a darglielo, dovessi comprali di tasca mia!
Lascio Nairobi con la consapevolezza che hanno bisogno di aiuto ma non solo di sfamare i bambini nelle tribù remote, come ci fanno vedere nelle pubblicità, quanto piuttosto di mezzi concreti, di aiuti diretti per la crescita del Paese e soprattutto di potenziare il sistema sanitario perché pochissimi farmaci sono rimborsati e le persone non possono permettersi le cure se non sono ricche.
L'altro problema è che qui i farmacisti possono fare direttamente le prescrizioni e le persone che non possono permettersi visite mediche vanno da loro per farsi curare, quindi la farmacia diventa il luogo primario di intervento sanitario, con tutti i problemi che ne derivano.


Lascio il Kenya e proseguo il mio tour verso Kampala, Uganda. Anche questo tragitto aeroporto/città diventa il momento migliore per farsi un'idea di quello che mi aspetta.
A differenza della prima tappa, qui la situazione strade è ben diversa, prima di arrivare nel caos passiamo tra le campagne, tra i bambini che camminano scalzi, tra innumerevoli negozi/baracche dove sembra il tempo si sia fermato. La confortevole Mercedes sembra davvero non integrarsi a questo panorama.

All’arrivo in Hotel trovo l’ennesima enorme oasi felice nel bel mezzo della povertà. Mi sento la solita occidentale fortunata in mezzo ad una popolazione che non lo è.
Approccio nuovamente l'università, ultimo giorno - ultima conferenza, son stanca ma curiosa di capire come se la passano qui.
A differenza di Nairobi, la Makerere University è spaziosa e pulita, piena di prati e giardini, il tutto supera davvero le mie aspettative.
Ci accolgono con grande calore e mi dedico alle chiacchiere con i partecipanti.
Si tratta di giovani dottori in questo caso e ben presto scopro che le mie sensazioni all'arrivo erano giuste, qui siamo lontani dagli standard del Kenya.





Mi spiegano che l'università funziona molto bene e i docenti son ottimi ma il problema dell'Uganda sono le sue province. Lì non c'è istruzione, non ci sono strade, non ci son dottori e i pochi che si avventurano a praticare lontano dalla città sono polivalenti, vedono e curano tutto.
Mi dicono che la situazione politica poco stabile ha contribuito negli anni a far crescere solo Kampala, che loro guardano al Kenya con ammirazione e sanno che per "raggiungerli" il governo dovrebbe investire di più.
A differenza degli ambiziosi studenti di Nairobi, qui sembra che la priorità sia reperire fondi e strumenti per lavorare tra la loro popolazione, c'è troppo bisogno di medici per allontanarsi dal Paese.
Parlo con un uomo distinto, manager di una grossa compagnia farmaceutica e anche lui mi diceche stanno facendo molti passi avanti e lui è un privilegiato ma è preoccupato per l'istruzione dei suoi figli se non può mantenerli a Kampala, al di fuori c'è il nulla.

Per l'ennesima volta mi spiegano che i progetti a breve termine in Africa non servono, bisogna rafforzare gli aiuti agli apparati amministrativi con visioni di lungo termine, non serve il centro di Emercency in mezzo alla campagna se poi è destinato a rimanerci per sempre.


Rientro in albergo, son finite le lunghe giornate lavorative, dedico le ultime ore che mi restano in Africa a pensare a cosa mi ha davvero colpito. Mi hanno colpito le persone: la classe "media”.

Sono rimasta affascinata dal loro modo estremamente critico di analizzare la loro situazione e quella di entrambe le nazioni, dai loro preparatissimi cervelli pieni di ottime conoscenze e spirito critico. Dalla loro voglia di andare avanti in paesi dove c'è ancora tantissimo da fare.
Loro sono l'Africa di cui non si parla, quella che è meno interessante sugli spot, ma quella su cui dovrebbero porsi gli sforzi degli aiuti. 
Loro sono lì ad istruirsi, a lavorare per la metà dei nostri stipendi, senza le comodità occidentali ed in mezzo a gente che ancora muore di fame.

Loro sono il futuro di speranza e non di rassegnazione.
Loro sono quelli che con un sorriso, imbottigliati in macchina tra code inimmaginabili, ti dicono: "There is no rush in Africa".
Questo spirito spiega molto della loro cultura e mi piace pensare che li aiuterà a diventare migliori di noi.